Cosa Significa Sentire la Propria Divinità?

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Qualche giorno fa, una signora mi scrisse, che non si sente più connessa con la sua “divinità” e che non sapesse più a cosa affidarsi. La sua incertezza mi ha fatto riflettere molto, a tal punto da chiedermi: con la nuova frequenza dell’uno multidimensionale, cosa significa sentire la propria divinità?

Nell’occidente, stanno finendo i tempi in cui la religione era sanzionata come l’unica via per incontrare il divino. Per molti oggi, il divino non è più qualcosa d’astratto, è riconoscibile ovunque, raggiungibile a qualunque persona desiderosa di sperimentarsi, magari applicandosi alla meditazione, vivendo più connessi con la natura, oppure spezzando un legno, è alzando una pietra, vale a dire, trovando il mistero nella semplice quotidianità.

Nel terzo millennio, volendo, i procedimenti per incontrare il sacro sono privi dell’interferenza dei terzi. Tuttavia, anche se abbiamo eliminato i mediatori—governati dalla separazione dualistica di fuori/dentro, abbiamo bisogno ancora di un metodo o una pratica per accedere al nostro centro. Ora chi ne è consapevole dell’innalzamento della frequenza della terra, è sollecitato a compiere una transizione importantissima—incarnare la totalità, senza i soliti mezzi di pratica, nella ordinarietà della vita, e soprattutto quando prende il sopravvento l’emotività.

La natura dell’energia non è reattiva, va in cerca dell’armonia, perciò risponde. Il salto dalla separazione (mente) all’unità multidimensionale (cuore) vuole dire rimanere “totale” in risposta e non in reazione, soprattutto quando siamo nell’onda emozionale.

Questo non significa rimanere privati dei propri sentimenti, bensì sperimentare un paradosso in cui le emozioni, di polarità opposte, possono coesistere simultaneamente in equilibrio, piuttosto che entrare in un conflitto ­re-attivo che separa, del tipo: giustificare, o proiettare per non sentire il senso di colpa, l’auto-rifiuto o l’auto-giudizio. Per la mente, che separa per natura, non è facile comprendere il paradosso divino, quel perno stabile e immobile del pendolo oscillante della mente, anche se lo conosciamo già, almeno in teoria.

Non c’è bisogno d’essere religiosi per conoscere uno degli esempi paradossale più famosi nella Bibbia che unisca emozioni contrastanti e di polarità opposte, simultaneamente. Una perfetta dimostrazione di totalità durante un’interazione d’ostilità, che umanamente, susciterebbe in qualunque, emozioni negative.  L’esempio si trova nel Vangelo di Luca 6, 27-29:

Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra.  

Nonostante gli insegnamenti dei Maestri, la frequenza della terza dimensione ci ha rinchiuso nella mente, con un ego che predilige la legge del tallone: occhio per occhio dente per dente (combattere il negativo con il negativo), supportata dalla teoria di Darwin e la sua origine delle specie per selezione naturale, o meglio—la sopravvivenza dei più forti (guerre/oppressore/vittime).

Aristotele classificò l’umanità come “un animale razionale” con una scintilla divina dell’assoluto, un modello di spirito che ci permetterebbe di espandere la coscienza. Diversi da altri mammiferi, non per l’intelligenza, ma per la flessibilità del cervello, l’umanità è priva di un’essenza definita, in altre parole—ogni individuo è in grado di trascendere la realtà, liberandosi dalle catene della collettività umana.

Come abitanti delle terre, o meglio, come una specie animale, sebbene istruito, viviamo condizionati dagli impulsi: la riproduzione sessuale, la conquista del territorio e il possesso delle risorse per assicurare la sopravvivenza del corpo fisico. In questi vincoli, puramente animali, la maggioranza delle persone hanno potuto sperimentare il paradosso divino solo tramite le espressioni naturali e involontarie del corpo: durante il raggiungimento dell’orgasmo e nel processo della nascita; dove entrambe le esperienze esprimono l’unità (il paradosso divino) che unisce le opposte dualistiche dell’espansione e le contrazioni simultaneamente.

Oggi, ogni uno di noi, che sia consapevole, oppure no, è davanti ad un bivio. Si è aperto un varco, un passaggio molto stretto. Non è ancora un viaggio collettivo, non si può portare neanche chi amiamo; è un viaggio solitario. 

Ultimamente si sente parlare della rivoluzione dell’Amore, il prossimo passaggio per innalzare, maggiormente, la frequenza del pianeta. Questo transito non è un’improvvisa espansione collettiva dell’amore verso il prossimo (tipica del New Age), oppure un sentimento riconoscibile nell’amore romantico che si esprime in coppia. Non è neppure l’amore che si sente nei confronti dei bambini, genitori o amici.

L’Amore rivoluzionario è ancora estraneo all’uomo della collettività, perché la mente è incapace di comprendere l’unità multidimensionale, conosce solo gli impulsi magnetici della separazione (respinta) e la necessità, d’unirsi con altri per confrontarsi e amare (attrazione), non è ancora un essere emotivamente auto sufficiente; ovvero sovrano.

Si chiama una rivoluzione dell’Amore perché come tutte le ribellioni, abbatterà ogni muro, spazzerà via ogni giudizio e insofferenza mai esistita dentro di noi; però, prima di diventare collettiva, tutto ciò accadrà inizialmente all’individuo singolo.

Come? Tramite le emozioni contrastanti sentite simultaneamente (ma integrate), mentre viviamo in un mondo, che più che mai, provoca un vissuto difficile.

Quando? In quei momenti in cui siamo in grado di vivere la paura senza analizzare o giudicare l’esperienza, e sentirsi benedetti nello stesso momento perché siamo ormai capaci d’incontrare il dolore, nella sua forma più pura, privo dei lamenti dell’ego. Quella parte dell’umanità moralistica che lotta per rimanere brillante e nello pseudo giusto, togliendoci l’opportunità di assaporare fino in fondo, la grazia che può nascere nell’esprimere liberamente, qualunque frammento scomodo che ci rende vulnerabili, inadeguati, egoisti, perfino brutti negli occhi di chi ci attacca, offende o ferisce.

Perché, assente della vergogna, il senso di colpa, la repulsione per se stessi e il pentimento che ci costringe a giustificarci, o meglio, auto-tradirsi, persino l’ira, se espresso con purezza e in totalità, è un’emozione potente che ci fa avvicinare al nostro  serbatoio di creatività solitamente controllato e rinchiuso nell’ombra repressa.

Perciò la rabbia, vissuta e sentita simultaneamente con le qualità essenziali di forza, determinazione, sicurezza e autorevolezza, espande il senso di libertà nell’aver mostrato, con autenticità, e senza l’interferenza dell’ego, una parte in noi che ci appartiene, regolandoci un senso di potere personale, invece di togliercelo.

Questo è la rivoluzione dell’Amore, l’amore totale per il sé in tutte le sue parti.

Vissuto dal cuore, non siamo solo luce e ombre, due opposte unite in totalità, bensì l’intero universo multidimensionale rinchiuso in una scintilla divina dell’assoluto. Come sopra come sotto, un micro universo riflesso in un macro universo, un essenza riconoscibile nei contenuti dei primi quattro versi nella poesia “ Auguries of Innocence” scritta dal poeta Inglese William Blake:

Vedere il mondo in un granello di sabbia,

e un paradiso in un fiore selvaggio,

tenere nel palmo della mano l’infinito,

e l’eternità in un’ora.

Cosi ritorniamo autentici come bambini, e in quella straordinaria ordinarietà, nella sua semplicità, l’ Amore infinito si presenta improvvisamente più raggiungibile, quasi tangibile, non solo sentito nel cuore, ma possiamo perfino tenerlo nel palma della mano, per tutti noi, l’umanità: figli dell’universo.

Caroline Mary Moore

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